BFF 2020 – Here Now

La settimana inaugurale della prima edizione della BFF era prevista per marzo 2020, purtroppo cancellata dell’entrata in vigore delle restrizioni per la pandemia di Covid. Abbiamo dovuto rinunciare alla Biennale come l’avevamo progettata e immaginata per due anni ma non ci siamo lasciate abbattere. Abbiamo quindi trasformato il piano originale in una versione scaglionata della Biennale, Here Now, esponendo tutte le mostre principali e quelle della open call nei mesi estivi e nell’autunno del 2020, riuscendo a recuperare la quasi interezza del programma originale.

Il tema scelto è il “Lavoro”. Un concetto scottante e attuale, sia nella micro che nella macro-visione delle cose. Il lavoro necessario, quello che costringe esseri umani a cercare un futuro per sé e per le proprie famiglie altrove; gli italiani per primi, alla ricerca di un posto adeguato - nei diritti e nel salario - al loro titolo di studio. Il lavoro più che nella sua routine quotidiana visto come opportunità di dignità e realizzazione personale, ancora oggi così difficile da trovare. Il lavoro nella prospettiva delle donne attraverso le difficoltà e le soddisfazioni all’interno della società occidentale, così come ad altre latitudini. In particolare, per questa prima edizione, lo sguardo attento e differente delle donne fotografe professioniste. Donne che in giro per il mondo hanno dato vita a progetti fotografici unici. 

Artiste in mostra

Eliza Bennett
A woman’s work in never done

A Woman’s Work is Never Done comprende una serie fotografica e un video. Usando la sua stessa mano come materiale base, Bennett l’ha considerata come una tela su cui ha cucito lo strato superiore di pelle usando del filo per creare l’apparenza di una mano incredibilmente consumata dal lavoro. Ha utilizzato la tecnica del ricamo, tradizionalmente usata per rappresentare la femminilità, per esprimere il suo opposto, Bennett spera di sfidare la nozione preconcetta che il “lavoro delle donne” è leggero e semplice. Mira a rappresentare gli effetti invisibili del lavoro duro che derivano dall’impiego nei lavori “ancillari” sottopagati, come quelli domestici e di cura, tutti tradizionalmente considerati “lavoro da donne”. Il KODE Art Museumdi Bergen in Norvegia le ha commissionato un video sul lavoro, proiettato per la prima volta durante Nalen’s Oye, una mostra collettiva di artisti che usano il ricamo come metodo nell’arte contemporanea.

Il lavoro di Eliza Bennett risponde in maniera eclettica e istintiva sia a quello che studia sia a ciò che incontra nel suo ambiente. Comunica le sue idee coinvolgendo lo spettatore attraverso un metodo che si dipana tra pratiche tattili, come creare segni e scolpire, e pratiche mediate dalla fotografia e dai video. I suoi interessi si fondono ripetutamente nella cornice della formazione del soggetto, dialettica e poetica. I suoi lavori richiamano la nostra tendenza a classificare, con lo scopo di destabilizzare la nozione di classificazione, navigando attraverso sistemi di valore, ostentazione, accettazione ed esclusione. Vive e lavora a Straffordshire nel Regno Unito e ha recentemente completato gli studi al City & Guilds of London Art School. I suoi lavori sono stati selezionati per mostre in tutto il mondo.

Nausicaa Giulia Bianchi
Women Priests Project

Nell’estate del 2002, sette donne cattoliche provenienti da Austria, Germania e Stati Uniti sono state ordinate preti su una nave in crociera lungo il Danubio. Poco dopo, tre donne sono state ordinate vescovi in gran segreto, così da poter tramandare ordinazioni femminili senza l’intervento del Vaticano. Da allora, diverse cerimonie simili sono state tenute da RCWP, un gruppo di suffragette che mettono in atto una disobbedienza religiosa a favore dell’ordinazione di donne. Oggi, il movimento conta più di 215 preti ordinate e 10 vescovi in tutto il mondo. Giulia Bianchi lavora a Women Priests Project dal 2012. Ha visitato 35 comunità negli Stati Uniti, Canada e Colombia. L’obiettivo del progetto è quello di creare un archivio storico di questo movimento; poiché la loro ordinazione è valida (anche se illecita), un giorno queste donne saranno ricordate come le prime preti donne cattoliche della storia. In un momento che necessita molto di cambiamento, queste foto ci mostrano una realtà proibita che potrebbe diventare il futuro della Chiesa. Il progetto ci mostra quale è la spiritualità femminile e che caratteristiche hanno le comunità che sono create sotto la guida di donne: inclusive, non gerarchiche, non dogmatiche, e aperte a persone di ogni razza, genere e status economico.

Giulia Bianchi è una fotografa documentarista e insegnante di fotografia interessata alla ritrattistica, alla narrativa visiva e alla pubblicazione di libri. I suoi lavori sono stati pubblicati, tra gli altri, su The Guardian, National Geographic, TIME, Vogue, Huffington Post, La Repubblica, Internazionale. I suoi progetti fotografici sono stati messi in mostra in Italia e all’estero. Ha anche creato il percorso didattico indipendente “Foto e Spirito”.

Betty Colombo
La riparazione

La mostra di Betty Colombo è stata riprogrammata ed esposta nell’edizione 2022.

Il rapporto tra uomo e natura è qualcosa di controverso e stupefacente. La Terra cambia, un po’ per se stessa e molto a causa nostra. Ma il pianeta sa muoversi per autoripararsi e così cerca di fare l’uomo. L’uomo distrugge il pianeta e poi lo cura, entrambi si feriscono a vicenda per poi aggiustarsi. Questo lavoro parla di riparazione; riparare il guasto per conservare al posto di cambiare. Quattro finestre su altrettanti momenti in cui l’uomo e la natura cercano un dialogo per la salvezza comune. La prima serie racconta un territorio colpito da un incendio. Immagini della sua rinascita, con l’aiuto dell’uomo. Un bosco che torna a respirare e a farci respirare. La seconda serie tratta di un trapianto. Un uomo muore e lascia a un altro l’ultimo respiro dei suoi polmoni, permettendogli di continuare a vivere. La terza serie narra del salvataggio di un animale da parte di un veterinario, rappresentando l’aspetto controverso dell’uomo che distrugge gli abitanti della natura ma poi si intenerisce, al punto da dedicar loro energie e sentimenti. La quarta e ultima serie mostra un intervento di chirurgia plastica ricostruttiva in seguito a un’ustione. Mentre il bosco incendiato cambia parte di sé, allo stesso modo l’uomo cambia la propria pelle.

Betty Colombo è una fotoreporter che lavora per diverse testate italiane ed estere. Ha all’attivo diverse mostre fotografiche nel mondo, 5 libri e 2 premi alla carriera. Immagini sue sono state acquistate dal Centre Pompidou, dal Guggenheim e dal Museo d’arte Moderna di Stoccolma. Il suo lavoro è viaggiare: sceglie una destinazione, studia i percorsi, parte, incontra gente, scatta circa 18.000 foto in 10 giorni. Molte delle foto sono utilizzate per pubblicazioni, altre da Save the planet per raccontare storie del mondo.

Claudia Corrent
Vorrei

Il lavoro è, per definizione, quella forza, unita alla consapevolezza di sé, che permette di realizzare la propria natura potenziale, portando a termine compiti etici che possano fornire un beneficio spirituale e morale a se stessi, all’ambiente sociale e naturale. Benché questa dimensione etica sia fortissima e preponderante nell’uomo, nell’attuale periodo di crisi strutturale che stiamo attraversando, a volte si traduce in un’aperta e indignata condanna verso la recente cristallizzazione dello status di disoccupazione. Claudia Corrent “flasha” sulla vita e sulla speranza di occupazione futura da parte dei giovani, fornendoci una sorta di libretto anagrafico o libretto di lavoro delle loro ambizioni. I dittici ritraggono adolescenti tra i 14 e i 19 anni, studenti della scuola professionale di Bolzano. Le fotografie presentano da una parte il ritratto del ragazzo/a e dall’altra il foglio che ne racconta i desideri: dalla semplice riuscita professionale (“Il mio sogno è diventare un bravo automeccanico”) alle regolari rivendicazioni di autonomia e felicità (“Vorrei farmi una vita mia”). Proprio come la vecchia consuetudine, che prevedeva la trascrizione nel libretto di lavoro e distingueva l’impiegato di concetto dall’impiegato di complemento, “vorrei” registra un primo approccio alla vita “laburista”.

Claudia Corrent nasce a Bolzano dove vive e lavora come fotografa. Insegna fotografia e tiene laboratori presso vari istituti scolastici, musei e associazioni, tra cui la fondazione Sandretto di Torino, il Mart di Rovereto e il Festival della mente di Sarzana. Si laurea in Filosofia presso l’Università di Trento con una tesi sul rapporto tra la filosofia e la fotografia di paesaggio. Nel 2019 vince il premio artisti della Provincia autonoma di Bolzano, il premio Riaperture e il Capalbiofotofestival.

Reina Effendi
Transylvania: Built on grass

Lungo il corso dei secoli, piccoli villaggi in Transilvania hanno conservato i loro prati per raccoglierne la paglia, allevato vacche e portato avanti fattorie di sussistenza. La favola agraria che è estinta nell’Europa occidentale esiste ancora qui in scene bucoliche, dove giovani ragazzi imparano a tagliare e raccogliere la paglia a mano, dove tutte le donne del villaggio sono bravissime nel tessere, e tutti gli uomini riescono a costruire una casa dal niente - con migliaia di tegole in legno tagliate a mano sul tetto. In questo mondo antico, definito da sistemi di credenza tradizionali e dal rispetto per l’ambiente, non si cammina su un prato di erba alta prima di tagliarla, le vacche e i cavalli trovano la via di casa lungo sentieri fangosi del villaggio e l’acqua del fiume serve per il mulino, il lavaggio e la distillazione di alcool.

I primi lavori di Rena Effendi si focalizzano sugli effetti dell’industria del petrolio sulle vite delle persone. Ora vive a Istanbul e documenta le vite di individui, famiglie, comunità, rivelandone la cultura, la storia e l’adattamento al contemporaneo. Effendi ha ricevuto molti premi internazionali tra cui Alexia 2018 Professional Grant, the Prince Claus Fund Award for Culture and Development, World Press Photo, SONY World Photography Award, e Getty Images Editorial Grant. Rena Effendi è rappresentata da National Geographic Creative agency e da ILEX Gallery. Il lavoro di Effendi è stato esposto in musei e gallerie in tutto il mondo incluso il Saatchi Gallery, Miami Art Basel, Istanbul Modern e alla 52esima Biennale di Venezia. Ha lavorato su commissioni editoriali, tra gli altri, per National Geographic, The New Yorker, Newsweek, TIME, The New York Times magazine, Vogue, Marie Claire, The Sunday Times, GEO.

Sandra Hoyn
Fighting for a pittance

Muay Thai, lo sport nazionale della Thailandia, è una delle arti marziali più difficili del mondo, nella quale chi la pratica spesso subisce gravi danni. Sono molti coloro che si guadagnano da vivere con questo sport, perciò le lotte tra bambini destinate ai turisti e le scommesse dei thailandesi fanno parte della vita quotidiana. Due o tre volte al mese lottano per una miseria e si spingono fisicamente e mentalmente ai limiti. Solo pochi diventano idoli famosi e ricchi. All’età di 25 anni la loro carriera è solitamente finita. In Thailandia queste lotte tra bambini non sono inusuali. Sono bambini che provengono da famiglie povere, molti lottatori sperano che la Thai box sia un’uscita dalla povertà. Per questa ragione i genitori mandano i figli ad addestramenti professionali anche quando sono molto giovani. La pressione esercitata sui bambini è enorme, perché i loro genitori scommettono grandi quantità di soldi. Le scommesse di denaro sono illegali in Thailandia, ma praticamente nessuno se ne cura. La posta in gioco è alta, molti arrivano a perdere tutti i loro averi in una sola serata.

Sandra Hoyn è una fotogiornalista con base ad Amburgo, dove ha studiato fotografia all’Università di Scienze Applicate. Ha lavorato sia per ONG che su progetti personali, focalizzando il suo interesse su temi sociali, ambientali e sui diritti umani. I suoi lavori sono stati pubblicati, tra gli altri, in Der Spiegel, GEO, Cosmopolitan, The New York Times Lens Blog e The Washington Post. Dal 2007 è rappresentata dall’agenzia laif. Ha ricevuto diversi premi, tra cui il Sony World Photography Awards, POYi, the Magnum Photography Award e World Press Photo.

Erika Larsen
Quinhagak – Works between 2015-2019

Quinhagak si trova sul fiume Kanektok sulla riva est della baia di Kuskokwim, a meno di un miglio dalla costa del Mare di Bering in Alaska. Il nome Yup’ik è Kuinerraq e significa “canale nuovo del fiume”. Ero stata portata lì per Nunalleq o “il villaggio vecchio”, un sito archeologico ai margini di Quinhagak. Il quadrato melmoso di terra è pieno di di oggetti del quotidiano che il popolo Yup’ik era solito usare per sopravvivere e per celebrare la vita, cose tutte lasciate così com’erano quando arrivò un attacco mortale, quasi quattro secoli fa, durante il periodo della Piccola Era Glaciale e le Guerre di Archi e Frecce, un conflitto all’interno del popolo Yup’ik quando le risorse erano scarse. Lungo il perimetro di quella che una volta era una grande struttura di terra ci sono le tracce del fuoco usato per scacciare col fumo i residenti - circa cinquanta persone, probabilmente un’alleanza di famiglie estese, che vivevano qui quando non erano fuori per la caccia, la pesca, e la raccolta. Nessuno, sembrerebbe, si salvò. Oggi Nunalleq conserva il passato, il presente e il futuro. Ho iniziato il mio lavoro a Quinhagak grazie a un invito dell’archeologo Rick Knecht e del direttore della Qanirtuuq Incorporated, Warren Jones. Volevo capire, dagli abitanti odierni di Quinhagak, la relazione, l’uso e il significato degli oggetti archeologici che stavano emergendo dal sito. Ho presto scoperto che gli antenati erano vivi attraverso la manifestazione fisica dei manufatti, nel canto e nella danza dei bambini, nelle storie degli anziani e in modo più ovvio nel lavoro e nelle giornate degli abitanti del villaggio di oggi. Sono tornata regolarmente durante gli ultimi quattro anni. Queste immagini sono note del tempo che ho trascorso lì, il mio tempo - parte di una storia collettiva - e, sommandosi, vanno a formare un’unione di tempi sovrapposti. 

Erika Larsen è una fotografa e storyteller multidisciplinare conosciuta per le sue storie raccontate per immagini che documentano culture che mantengono legami stretti con la natura. La sua prima monografia, Sámi - Walking With Reindeer, è stata pubblicata nel 2013.

Annalisa Natali Murri
Cinderellas

Per secoli le hijras (che in urdu indica chi abbandona la tribù), gli appartenenti al cosiddetto “terzo genere”, hanno avuto un ruolo fondamentale nella ritualità di molti paesi asiatici. Chi non era nato né uomo né donna in passato veniva venerato come una semidivinità, era simbolo di prosperità e buona sorte. Oggi spesso suscita disprezzo, diffidenza o ilarità: i tempi sono cambiati, e la vita delle hijras si è fatta più difficile, specialmente in un paese come il Bangladesh. Essere hijra in Bangladesh costringe molti a vivere senza un’identità riconosciuta. Coloro che nascono o decidono di diventare hijra ufficialmente non esistono: non possono avere accesso all’istruzione o al lavoro, avere un passaporto, un conto in banca né la patente di guida. A differenza di altri paesi che ne hanno riconosciuto l’esistenza, il Bangladesh sembra non preoccuparsi delle 35.000 e più hijras che vi abitano. La mancanza di assistenza da parte del governo, così come l’assenza di opportunità di lavoro costringe la maggior parte di loro a prostituirsi. «Probabilmente se il governo ci riconoscesse e ci concedesse opportunità di lavoro non avremmo bisogno di prostituirci» – dice una delle hijras di Dhaka – «e la nostra vita sarebbe migliore. Ma per adesso non possiamo fare altro che scendere in strada».

Annalisa Natali Murri Dopo aver completato gli studi in ingegneria, si focalizza sulla ricerca personale e su progetti documentaristici, ispirati da temi social e dalle loro conseguenze psicologiche, con particolare interesse per gli effetti della storia e della memoria collettiva nel determinare l’identità individuale e sociale. Il suo lavoro è stato premiato in vari concorsi internazionali, come Sony World Photography Award, Burnmagazine Emerging Photographer Fund e PHM Women Photographers Grant. È un membro di CAPTA Images.

Daro Sulakauri
The black gold

Chiatura è la più grande riserva di manganese in Georgia. Un tempo è stata una città ricca con davanti a sé un prospero futuro, ma dopo il crollo dell’Unione Sovietica ha sofferto di una grande depressione, inquinamento e povertà. Le miniere a cielo aperto di manganese depauperano in modo evidente l’ecologia urbana e la condizione di salute degli abitanti è messa costantemente a rischio a causa dell’inquinamento dell’aria. Qui l’unico lavoro che si può trovare è all’interno delle miniere e prevede turni da 12-18 ore, 13 km sottoterra con un salario mensile di circa $270. La maggior parte dei minatori abita nei villaggi che si trovano sopra i tunnel minerari. Per mantenere il lavoro e sfamare le famiglie scavano e fanno esplodere mine sotto le loro stesse case, molte delle quali vengono danneggiate. La legge in Georgia non impone l’ispezione delle condizioni di lavoro dei minatori e ci sono stati diversi casi di morte negli ultimi anni anche a causa dell’attrezzatura obsoleta che risale agli anni Cinquanta. Nel corso degli anni si sono svolte numerose proteste contro queste durissime condizioni di lavoro, i salari bassi e i licenziamenti di massa.

Daro Sulakauri è una fotogiornalista georgiana. Ha completato gli studi in fotografia documentaristica e fotogiornalismo all’International Center of Photography a New York, ma ora vive e lavora a Tbilisi. Il suo lavoro documenta tematiche sociali e politiche della zona caucasica.

Le fatiche delle donne
dalla Collezione Donata Pizzi

Non mi è stato facile trovare, cercando tra le molte in collezione, immagini di donne al lavoro altro che non fossero immagini di fatica. Ancora intorno agli anni Sessanta, soprattutto al Sud, le donne italiane si fanno carico dei lavori più umili e pesanti: trasportano acqua, badano agli animali, oppure sono impiegate/sfruttate come contadine, suore, perpetue, fioraie. (Lori Sammartino, Paola Agosti). Nei decenni successivi, quando attraverso la fotografia le prime artiste femministe denunciano i miti e i cliché di genere, lo fanno con ironia e irriverenza (Nicole Gravier, Alessandra Spranzi) ma si tratta ancora per la donna di situazioni subalterne, di isolamento anche per le artiste (Elisabetta Catalano), situazioni spesso penose seppur nell’agio della nuova borghesia. Si chiede ad esempio Spranzi: com’è possibile che la donna nelle riviste appaia sempre compiaciuta? E a queste immagini di falsa felicità appicca il fuoco. Gravier utilizza il linguaggio del fotoromanzo e mutua le situazioni in cui la protagonista è tipicamente prigioniera in ruoli di sedotta e abbandonata, lasciata in lacrime a disperarsi per il ritorno di lui, o a portagli la colazione a letto. Contemporaneamente nel campo del fotogiornalismo Gabriella Mercadini segue per il Manifesto le campagne per l’aborto, le manifestazioni femministe, le lotte continue. Bruna Ginammi affronta nella sua ricerca il tema del lavoro di madre e di figlia, con due opere originali non didascaliche che ci impegnano a riflettere sul non semplice ruolo di figlie prima e di madri poi. Elena Givone riassume in una semplice immagine frontale la storia di una donna e di un continente, l’Africa, che cresce e si sviluppa ma ancora riserva, soprattutto alle donne, i lavori più umili.

Donata Pizzi ha lavorato come ricercatrice iconografica, come fotografa per l’editoria e l’industria, come responsabile di agenzia fotografica. Dal 2015 lavora alla costituzione di una collezione di fotografia italiana incentrata sul lavoro di fotografe e artiste attive tra gli anni Sessanta e oggi.

Alessandra Spranzi, 1997 Tornando a casa #20

Women Photographer International Archive
La Donna Nuova – Narrazioni di genere nello sviluppo della fotografia femminile cubana

In che modo la fotografia ha sostenuto la costruzione della “nuova donna” nell’immaginario cubano? In che modo si sono rappresentate le donne all’interno dello sviluppo dello stato socialista? La nuova donna: narrazioni di genere nello sviluppo della fotografia femminile cubana presenta il lavoro di sei artiste le cui fotografie ci danno un assaggio di diverse storie attraversate dalle tematiche di genere. La mostra è parte delle attività di promozione del Women Photographers International Archive (WOPHA), un’organizzazione emergente dedicata alla ricerca, alla promozione, al sostegno e all’educazione sul tema del ruolo della donna, e di coloro che si identificano come tali, in fotografia.

Artiste in mostra
Niurka Barroso, Anna Mia Davidson, Kattia García, María Eugenia Haya, Sonia Cunliffe, e Gilda Pérez. 

Aldeide Delgado è fondatrice e direttrice del Women Photographers International Archive (WOPHA); un’organizzazione che ricerca, promuove, supporta ed educa sul ruolo delle donne e coloro che si indentificano come donne in fotografia. È l’autrice dell’archivio online Catalogo delle Fotografe Cubane e dell’omonimo libro in corso di realizzazione.

Open Call

Progetti selezionati

Premio VICE MAGAZINE
Cristina Cosmano
Lettere per quando sarai grande

Premio R84 Multifactory
Luciana Passaro
Molo 36

Premio FOTOFABBRICA
Susanna De Pascalis
Burn

Maria Bauer
La tristesse durera toujours

Sabina Candusso
Curriculum vitae

Melania Gammicchia
Eater Disorder

Valentina Di Berardino
Kat-Rix plays

Arzachena Leporatti
Viola

Vanessa Lopes Alvares
Ambulanti da spiaggia

Giulia Mozzini
Life of a repented

Natalia Saurin
Rose e fiori

Programma e ospiti

A causa della pandemia da Covid 19 alcuni di questi eventi sono stati cancellati, spostati all’edizione 2022 o trasformati in dirette online.

CONFERENZE

Donne, lavoro e divario di genere: conoscerlo per affrontarlo
Claudia Forini con il supporto di CGIL

Donne ed editoria fotografica
Giulia Zorzi

Perché una collezione di donne fotografe
Donata Pizzi e Marzia Corraini

Il fotogiornalismo. Viaggio di un’immagine dall’idea all’edicola.
Betty Colombo e Chiara Zennaro

Da musa ad autrice. Il nudo femminile in fotografia dalle origini a oggi
Anna Luccarini e Francesca Marani

Il lavoro dello storytelling
Erika Larsen con il supporto di LUBIAM

Il coraggio di essere desiderio
Francesca Cao, Fabrizio Zanoni

Where Prison Is A Kind Of Freedom
Kiana Hayeri

Il cambiamento nel quotidiano: l’uso del linguaggio nella musica e nei media
Silvia Olivieri, Giulia Salerno

Diritti riproduttivi dagli anni settanta ai giorni d’oggi
Liliana Barchiesi, Eleonora Cirant, Federica Di Martino, Eleonora Macchia

Collezione privata F.S.- Per un nuovo sguardo al femminile
Marina Pizziolo

WORKSHOP

Betty Colombo
Un reportage dallo scatto alla stampa

Sara Lando
Ritrattistica creativa

Letizia Battaglia
Nuda come la terra madre

LETTURE PORTFOLIO

Betty Colombo, Aldeide Delgado, Ann Griffin, Erika Larsen, Anna Luccarini, Francesca Marani, Cecilia Pratizzoli, Giulia Zorzi 

PROIEZIONI

Elliott Erwitt: Silence sounds good
Adriana Lopez Sanfeliu

Essere donne
Cecilia Mangini

PRESENTAZIONI

Oro Rosso
presentazione del progetto fotografico e libro di Stefania Prandi

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BFF 2022 – Legacy