BFF 2024 – Private
Esiste una possibile correlazione tra il concetto di privazione e quello di privacy?
La rimozione dall’ambito pubblico può avere risvolti molteplici: si tratta di una sottrazione salvifica o una prevaricazione? Il termine private contempla entrambi i domini, tra realtà tangibili e dati sensibili. In che modo è possibile definire ciò che è pubblico o privato? Cosa significa venire deprivati? A partire da queste riflessioni, l’edizione 2024 indaga attraverso la fotografia spazi individuali e collettivi, virtuali e reali. Contesti dove il personale e il pubblico si sfumano in un rapporto osmotico e, talvolta, conflittuale.
Questa edizione della BFF è dedicata alla memoria della nostra compagna Cecilia Carli, che ci ha lasciate nel 2023.
Artiste in mostra
Daria Addabbo
Drought. No water in the Owens Valley
Un terzo dell’acqua utilizzata dalla città di Los Angeles proviene dalla Owens Valley: un tratto di deserto e prateria delimitato dalla Sierra Nevada a ovest e dalle White Mountains a est. È qui che, un centinaio di anni fa, Los Angeles ha acquistato circa centoventimila ettari di terreno, ottenendo così i diritti d’uso dell’acqua sul fiume Owens. Successivamente, la città è stata in grado di trasformarsi da un sonnolento villaggio di quindicimila abitanti alla metropoli che conosciamo oggi. All’inizio del 1900, Fred Eaton – allora sindaco – e l’ingegnere irlandese Mulholland concordarono sull’importanza del sistema idrico per il futuro sviluppo della città. Fu così che la deviazione dell’acqua dal lago – a favore della privatizzazione dell’acquedotto – ha generato un disastro ambientale di vaste proporzioni. I venti oggi sferzano la valle dalle montagne, spazzando via dal letto del lago solfati e particelle tossiche che creano tempeste di polvere pericolose per la cittadinanza. Inoltre, il cambiamento climatico e la conseguente crisi idrica stanno rendendo sempre più grave la siccità in California minacciando la vita delle comunità che vivono nella valle.
Daria Addabbo è nata nel 1979 a Roma, dove attualmente risiede. Nel 2013 ha svolto uno stage presso il World Food Programme. Ha pubblicato sulle più importanti riviste italiane e internazionali tra cui: National Geographic, Espresso, Internazionale, D di Repubblica, Vanity Fair, Grazia, GQ e Washington Post. Ha esposto i suoi lavori in Argentina, in Brasile e in Italia.
Lisetta Carmi
Lo sguardo di Lisetta Carmi sulle donne di Sicilia e Sardegna
Tra il 1962 e il 1977 Lisetta Carmi si è dedicata a un capitolo meno conosciuto della sua fotografia, incentrato sulla ripresa dei paesaggi della Sardegna e della Sicilia. Allo stesso tempo il suo interesse è rivolto alle realtà sociali dei piccoli centri urbani. Con il suo obiettivo Carmi rivela una prospettiva più profonda e intima discostandosi dalla fotografia etnografica convenzionale e lontana da ogni folklore. All’interno di queste immagini le donne si dispiegano nelle azioni della vita quotidiana, nel loro privato, avvolte in un’atmosfera sospesa. Ritratti che pur mantenendo inalterata l’identità dell’individuo diventano elementi integranti del paesaggio stesso.
Lo sguardo di Carmi illumina le donne avvolte in veli neri, nel cuore della cultura contadina del Sud Italia. Le fotografie in mostra, esposte in poche occasioni, ci offrono una visione autentica di queste donne che, con un misto di fierezza e spontaneità ci svelano la loro forza e dignità. In questa raccolta, la figura della donna emerge come protagonista centrale di una narrazione che oltrepassa i limiti del ritratto individuale verso una visione più ampia, che ben rappresenta l’identità storico-culturale delle due maggiori isole italiane.
Lisetta Carmi nasce a Genova nel 1924. Musicista, si avvicina per caso alla fotografia e ne fa una professione, realizzando a Genova alcune tra le sue serie più famose, come quella sulla comunità trans (allora detti “travestiti”). Viaggia in Europa, America Latina e India. Nel 1966 vince il premio Nièpce Italia. Nel 1976 incontra a Jaipur il guru Babaji e fonda un ashram in Puglia. Muore a Cisternino nel luglio 2022.
© Martini & Ronchetti, Courtesy Archivio Lisetta Carmi
Luisa Dörr
Imilla
Le polleras boliviane, gonne ingombranti comunemente associate alle donne indigene degli altipiani, sono state per decenni un simbolo di unicità ma anche oggetto di discriminazione. Ora una nuova generazione di donne che praticano lo skateboard a Cochabamba le indossa come un emblema di resistenza. Se l’indumento fu inizialmente imposto dai colonizzatori spagnoli alla popolazione nativa, nel corso dei secoli si è integrato nell’identità locale, come simbolo ambivalente di autenticità e stigmatizzazione. Riscoprire le polleras negli armadi di zie e nonne è sembrata la scelta più ovvia per Dani Santiváñez, una giovane skater boliviana che – nel desiderio di recuperare le sue radici – ha creato nel 2019 “ImillaSkate”. Imilla significa giovane ragazza in aymara e quechua: le due lingue più parlate in Bolivia, un paese in cui più della metà della popolazione ha radici indigene. Le nove donne che attualmente fanno parte del gruppo indossano le polleras solo per andare in skate. Abbinate a scarpe da ginnastica, queste gonne simboleggiano la scelta di non privarsi della loro cultura e, attraverso questa pratica, veicolano così il loro messaggio di inclusione e accettazione della diversità.
Luisa Dörr è una fotografa brasiliana che utilizza il ritratto come veicolo per esplorare la complessità della natura umana. Attualmente, il suo lavoro si concentra su questioni di genere e sulle tradizioni culturali. Le sue fotografie sono apparse su Time, National Geographic, The New York Times, PDN e Wired. Nel 2019 ha vinto il terzo premio per la categoria “Ritratti – Storie” del World Press Photo.
Kiana Hayeri
Where prison is a kind of freedom
“L’Afghanistan è un paese di estremi”, afferma la fotografa. E così è la vita delle donne di questa storia. Intrappolate in matrimoni che le rendono vittime di vessazioni, si sono trovate a considerare l’uxoricidio come unica via di sopravvivenza. Fino al 2021 erano 119 le carcerate della prigione di Herat, dove Kiana Hayeri ha trascorso due settimane, entrando in profondo contatto con alcune di loro. Se da un lato il loro crimine le ha condannate alla privazione di libertà, dall’altro ha offerto loro un’altra vita. La prigionia è diventata una “seconda opportunità”, seppur contornata da quel filo spinato che serve tanto a tenere rinchiuse loro, quanto a proteggerle da possibili desideri di vendetta da parte delle famiglie dei mariti. In un cortocircuito morale la comunità di detenute ha trovato – seppur in celle sovraffollate – uno spiraglio di pace e tranquillità per loro e i figli minorenni, all’insegna della collaborazione e del mutuo aiuto. Poco prima del ritorno dei talebani al potere, le detenute sono state liberate e attualmente le prigioniere del centro di detenzione vivono in condizioni di abuso e privazioni ben lontane dalla sicurezza degli anni passati.
Kiana Hayeri è una fotografa Iraniano-canadese, nata a Teheran. Collabora attivamente con il New York Times ed è Senior Ted Fellow. Il suo lavoro è apparso su testate giornalistiche internazionali come Le Monde, NPR, il Washington Post e il Wall Street Journal. Da anni interessata all’universo sociale e culturale del Medio Oriente, oggi risiede a Kabul, da cui racconta la realtà dell’Afghanistan.
Esther Hovers
False Positives
I sistemi di sorveglianza intelligente sono costituiti da telecamere in grado di rilevare i segni nel linguaggio del corpo e nei movimenti che potrebbero indicare una “intenzione criminale”. Gesti inconsueti che – all’interno di uno spazio pubblico – vengono segnalati come “anomalie”. Mappando tali anomalie, si strutturano gli algoritmi che orientano le telecamere in grado di rilevare i comportamenti devianti. False Positives esamina come i sistemi di sorveglianza studiano il nostro comportamento, sollevando la questione dell’accettabilità delle “classificazioni”, nonché della tutela della privacy negli spazi condivisi. La ricerca di Esther Hovers si struttura sulle “otto anomalie” segnalate dagli esperti di sorveglianza intelligente con i quali ha collaborato. Il progetto unisce fotografie e disegni di modelli al fine di fornire un’analisi all’interno e intorno al quartiere degli affari della città di Bruxelles.
Nella sua pratica artistica, Esther Hovers indaga il modo in cui potere, politica e sistemi di controllo esercitano attraverso la pianificazione urbanistica e l’uso dello spazio pubblico. Fotografa di formazione, crea installazioni dove fotografie, disegni, testi e film dialogano alla pari. Il suo lavoro è apparso su The New York Times, Washington Post, M – Le Magazine du Monde e Wired.
Tamara Merino
Underland
Dai rifugiati climatici ai voraci minatori, dalle sette dell’apocalisse, alle comunità indigene abbandonate, sessanta milioni di persone nel mondo vivono oggi in ambienti sotterranei. La scelta di una vita di esclusione risponde a bisogni basilari in gran parte persi di vista nelle nostre società tecnologiche e veloci. Come un ritorno al “mito della natura”, troviamo scatti a esseri umani in ambienti che hanno rappresentato un riparo sicuro prima che si iniziasse a creare rifugi e costruire abitazioni. Le nuove sfide del mondo moderno hanno condotto alcune persone a ritrovare sottoterra un alloggio stabile e sicuro. Tamara Merino ha documentato tale situazione vivendo con alcune comunità che si sono private della tecnologia e del comfort in Australia, Spagna e negli Stati Uniti. In molti casi, gli esseri umani che hanno optato consapevolmente per una esclusione dalla società stanno trovando nella vita sotterranea un’alternativa efficiente dal punto di vista energetico e sostenibile rispetto alle abitazioni convenzionali.
Tamara Merino vive in Cile, è un’esploratrice del National Geographic e si concentra su questioni antropiche, socio-culturali e d’identità. Negli ultimi anni ha seguito alcune comunità che si sono ritirate dagli spazi urbani per vivere sottoterra. Il lavoro di Merino è apparso in numerose pubblicazioni internazionali, tra cui National Geographic, The New York Times, Time Magazine e Der Spiegel.
Thandiwe Muriu
Camo
Il lavoro di Thandiwe Muriu crea illusioni surreali di pura fotografia che non sono frutto di manipolazione digitale. In un mix tra tessuti unici e pratiche culturali, l’artista si confronta con i temi dell’identità e della ridefinizione dell’empatia femminile nel contemporaneo, attraverso l’applicazione di texture afro e oggetti di uso comune. Reimmagina ritratti associati alla vita quotidiana del Kenya realizzati con audaci accessori indossati dai suoi soggetti, per ridiscutere il concetto di bellezza, finalmente dal punto di vista africano. Lavorando con l’ankara – simbolo del tessuto introdotto dai mercanti olandesi del XIX secolo di provenienza indonesiana – Muriu fotografa i suoi soggetti fondendoli con l’ambiente che li circonda. Un lavoro colorato e riflessivo che, attraverso il camouflage, fa emergere i volti dalle stoffe riflettendo sul concetto del forzato ritiro nell’ambito privato, presentando così una nuova e audace visione della donna africana e della sua autonomia.
Nata e cresciuta in Kenya, Thandiwe Muriu ha scoperto la fotografia da adolescente, da autodidatta. In pochi anni, si è distinta come fotografa commerciale di successo, con un percorso autoriale di ricerca Fine Art che l’ha portata a collaborare con 193 Gallery di Parigi. Il suo lavoro è stato esposto a festival e fiere internazionali ed è apparso su pubblicazioni tra cui il British Journal of Photography.
Photo requests from solitary
Photo Requests from Solitary (PRFS) è un progetto partecipativo che invita le persone detenute in regime di isolamento a lungo termine nelle carceri statunitensi a richiedere una fotografia su vari soggetti – reali o immaginari – e trovare un volontario che la realizzi. La variegata gamma di richieste e la loro realizzazione forniscono un archivio delle speranze, dei ricordi e degli interessi di persone che vivono in un regime di privazione totale della libertà. Ogni giorno, almeno ottantamila persone sono detenute in isolamento negli Stati Uniti in condizioni che causano danni psicologici e fisiologici profondi e duraturi, già denunciate dalle Nazioni Unite come torture. PRFS è anche un progetto di “educazione pubblica sulla detenzione in isolamento” e sostiene campagne contro una tale prassi, offrendo al pubblico un collegamento diretto con i carcerati, attraverso una collaborazione artistica che riconosce la creatività e l’umanità condivise da entrambi i lati delle mura del carcere.
Photo Requests from Solitary è un progetto iniziato nel 2009 grazie a “Tamms Year Ten”, un’iniziativa nata dal basso per far chiudere il carcere di Tamms, una famigerata prigione di massima sicurezza dell’Illinois. Il pubblico è invitato a soddisfare le richieste aperte attraverso il sito photorequestsfromsolitary.org
Claudia Ruiz Gustafson
La ciudad en las nubes
Tra il 1911 e il 1915 il Perù fu oggetto di esplorazioni di carattere coloniale, inclusa quella dello storico di Yale, Hiram Bingham. Finanziato dall’Università e dal National Geographic, Bingham si imbattè nel sito di Machu Picchu, diventando noto come il grande “scopritore” di questo luogo. Partendo dalle fotografie scattate durante un viaggio sui Caminos del Inca e affiancando documenti d’archivio, Claudia Ruiz Gustafson mette in discussione il concetto di “scoperta” di Machu Picchu e della sua narrazione storica. La storiografia occidentale ha di fatto sottratto il diritto del riconoscimento di quei territori a chi li abitava – saccheggiando tombe sacre della comunità quechua – in nome della ricerca scientifica. Nel corso delle sue spedizioni, Bingham scattò dodicimila fotografie, pubblicate su Harper’s e National Geographic – che ne deteneva i diritti esclusivi. Fu così che Machu Picchu smise di essere eredità culturale dei quechua. La Ciudad en las Nubes desidera mostrare come queste esplorazioni hanno contribuito, a volte in modo negativo, alla creazione e diffusione in Occidente dell’immaginario peruviano da un punto di vista etnografico.
Claudia Ruiz Gustafson è un’artista visiva peruviana che vive in Massachusetts. L’esperienza interculturale influenza profondamente la sua pratica artistica. Il suo ultimo progetto – Mi país imaginado – esplora fatti storici, decostruendo le dinamiche di una narrazione falsata dalle lenti dell’imperialismo e del suprematismo bianco, in una visione ri-contestualizzata.
Newsha Tavakolian
And they laughed at me
“Gli eventi in Iran mi hanno colpita profondamente. Sapendo di non poter cambiare il passato, e mossa da un desiderio di vedere in profondità, ho ripreso in mano i negativi che ho scattato all’inizio della mia attività fotografica. Un’immagine spiccava su tutte: una ragazza che annusa una rosa. Il suo profumo è un simbolo di speranza, d’amore e di libertà. Ho scelto di proposito una sequenza di negativi nati da errori miei o di altri, in laboratorio o per un malfunzionamento della mia macchina fotografica. Ho raccolto queste immagini scartate: mostrano quella realtà cruda e grezza da cui non possiamo nasconderci. Riosservandole, emerge un chiaro passaggio: dalla speranza e dai sogni della giovinezza, alla deludente realtà e la conclusione che nella vita abbiamo una sola scelta. Venire risucchiati dall’oscurità, oppure combatterla andando verso la luce. Il risveglio delle donne iraniane non è successo in un giorno: l’ho visto, ne ero parte. Volevamo di più, e presto. I politici mi hanno sfruttata e hanno riso di me – di noi. Ma nella mitologia iraniana, è la luce a vincere sull’oscurità nella loro eterna lotta.” Newsha Tavakolian
Newsha Tavakolian è una fotografa iraniana, membro dell’agenzia Magnum dal 2019. Ha iniziato a lavorare per la stampa all’età di 16 anni, coprendo le guerre in Iraq e le tematiche di carattere sociale del paese natale. Ha vinto il Carmignac Gestion Photojournalism Award 2014 e il Prince Claus Award 2015. Il lavoro di Tavakolian è presente all’interno di collezioni private, istituzioni internazionali,come il Victoria & Albert Museum, il Los Angeles County Museum of Art (LACMA), il British Museum, la Sackler Gallery e il Boston Museum of Fine Art.
Cammie Toloui
The Lusty Lady Series
All’inizio degli anni Novanta Cammie Toloui era una giovane studentessa di fotogiornalismo a San Francisco dallo spirito punk e ribelle. Mossa anche dalla necessità di pagarsi gli studi, Cammie fece una scelta molto radicale divenendo una spogliarellista del Lusty Lady Theatre. Il locale era un unicum all’epoca, in quanto interamente gestito da donne e garantiva sicurezza sul lavoro alle sex workers. Quando all’università le venne assegnato un progetto di documentazione sulla propria vita, la fotografa decise di raccontare il mondo del sex work, osservato dal punto di vista di una lavoratrice. Gli avventori potevano pagare cinque dollari ogni tre minuti per assistere a performance erotiche e sessuali su richiesta – dietro a un vetro – nell’area dei “Private Pleasures”. Una reciproca fascinazione, le ha permesso di fotografare gli avventori durante questo scambio così privato, in un dialogo doppio che implica il concetto di intimità, tra privacy e voyeurismo. Come lei stessa scrive: “Nel corso degli anni successivi, sono stata spinta a documentare questo radicale cambiamento nell’equilibrio di potere. I loro soldi gli davano il diritto di guardarmi: la macchina fotografica che avevo in mano mi dava il potere di guardare loro”.
Cammie Toloui è nata e cresciuta in California. Si è laureata in fotogiornalismo presso la San Francisco State University, dove è stata anche insegnante di fotografia. Il suo lavoro è stato esposto in alcuni dei musei più importanti al mondo, tra cui la Tate Modern di Londra e il Museo d’Arte Moderna di San Francisco. Nel 2021, la casa editrice Void ha pubblicato il libro della serie “The Lusty Lady”.
Irene Ferri
Couldn’t Share That
In un mondo dominato dall’attrattiva dei social media, il progetto fotografico di Irene Ferri Couldn’t Share That esplora le paure inespresse che avvolgono le difficili e complesse vite dei content creator, degli influencer e di chi coltiva una piccola (o grande) community online, per lavoro o per passione. Spinti dalla paura di perdere follower e sostegno, molti di noi si trattengono dal condividere le sfumature non filtrate delle proprie vite, temendo sia il rifiuto del pubblico che lo sguardo onnipresente e scrutatore del “Grande Fratello” digitale, avido e sempre desideroso di rivelazioni private. Irene Ferri ha invitato la sua community a condividere storie che sentivano di non poter esprimere online. Ogni scatto svela strati di silenzio che circondano argomenti intimi. Il peso di decisioni personali come un aborto, gli orientamenti sessuali tenuti nascosti, le battaglie con ansia e panico o la paura di invecchiare e l’abisso del burnout; allo stesso tempo interrogando anche tematiche profondamente legate all’essenza umana, come la spiritualità e il lutto. Il progetto mira a mettere in risalto come dietro ogni “mi piace” e “follow” si celi una complessa rete di storie personali che non hanno potuto ricevere ascolto, o che non si è ritenuto potessero essere rese pubbliche. L’obiettivo è anche quello di creare una comunità virtuale che sia maggiormente empatica e comprensiva, in cui non si debba costantemente temere di esternare l’autenticità del proprio essere e di ciò che accade nella sfera della vita privata.
Irene Ferri Fotografa neurodivergente e non binary, ha studiato cinematografia alla UCLA Extension ed è fondatrice di Arizona Project, per il quale si dedica all’insegnamento. Ha ricevuto riconoscimenti da Nikon Italia ed Europa ed è stata premiata al Miami Street Photography Festival.
Open Call
Affrontare una tematica complessa come quella di “Private” non è una sfida semplice. La open call internazionale della Biennale ha visto ugualmente una grande partecipazione di persone che hanno voluto parlare attraverso il mezzo fotografico di esperienze collettive e personali, mettendosi in gioco con originalità, coraggio e intensità. Ringraziamo ogni artistə che ha condiviso un pezzo del proprio “Private” con noi per il suo sguardo e per il suo entusiasmo. Tra i progetti selezionati, tre hanno ricevuto i premi messi in palio da Lomography, Fotofabbrica e Il Fotografo. Un ulteriore progetto è stato selezionato insieme all’Associazione Non c’è limite al limite.
Progetti selezionati
Premio IL FOTOGRAFO
Li Aixiao
I Am With Me
Premio NON C’È LIMITE AL LIMITE
Camilla Biella
Imprinting del ricordo
Premio LOMOGRAPHY
Mahé Elipe
AcompañantAs
Premio FOTOFABBRICA
Francesca Hummler
Unsere Puppenstube (Our Dollhouse)
Nynke Brandsma
Max
Giorgia Dal Molin
Stavo pensando al mare
Melania Gammicchia
Eater Disorder
Tea Primiterra
Onironauti
Sujata Setia
A thousand cuts
Eliška Sky
Womaneroes
Olga Stefatou
Chrysalis
Katerina Tsakiri
The smiley cut
Maria Giulia Trombini
Golubky. I ragazzi del fiume Dnipro
Programma e ospiti
PROIEZIONI E TALK
Sky Arte Le Fotografe
L’invisibile
Nausicaa Giulia Bianchi, Francesco Raganato
Ritorno a casa
Sofia Uslenghi
In memoria di me
Cristina Valtielli
Corpi liberi
Ludovica Anzaldi
Come Te
Chiara Fossati
Corazonada
Giulia Gatti
CONFERENZE
Autenticità nell’era dei Social Media: un viaggio tra intimità, neurodiversità e altri temi condivisi
Irene Ferri, Manuela Limonta, Giulia Gazzo
Private Pleasures
Cammie Toloui
No water in the Owens Valley - Individual Stories
Daria Addabbo
In conversazione con Newsha Tavakolian
Newsha Tavakolian
Archivi e Database per conservare e valorizzare l’Arte femminile, il progetto del Women Visual Artists Database
Laura VdB Facchini
BFF e Thanatos: la morte in fotografia. Un appuntamento con Alla Fine dei Conti
Elena Alfonsi e Anna Volpi
Il coraggio di essere desiderio
Francesca Cao, Fabrizio Zanoni
Where Prison Is A Kind Of Freedom
Kiana Hayeri
Il cambiamento nel quotidiano: l’uso del linguaggio nella musica e nei media
Silvia Olivieri, Giulia Salerno
Diritti riproduttivi dagli anni settanta ai giorni d’oggi
Liliana Barchiesi, Eleonora Cirant, Federica Di Martino, Eleonora Macchia
Collezione privata F.S.- Per un nuovo sguardo al femminile
Marina Pizziolo
PRESENTAZIONE LIBRO
Elle, donne sciamane. Un progetto fotografico di Valeria Gradizzi
Valeria Gradizzi e Marco Brioni
WORKSHOP
Daria Addabbo
Processo creativo di un lavoro fotografico documentario
Nausicaa Giulia Bianchi
Workshop di ritratto documentario e performance
Francesca Cao
L’intimità nel ritratto tra spazio fisico e mentale
LETTURE PORTFOLIO
Anna Acquistapace, Federica Berzioli, Riccardo Bononi, Benedetta Donato, Sara Munari, Alessia Paladini, Newsha Tavakolian
LABORATORI PER BAMBINƏ
Ritratto dei desideri
a cura di Virginia Gibelli e Beatrice Bassi
Collage The Imaginary Cities
a cura di Stefania D’Alberto e Giulia Tomasi
Let’s Build a lapbook
a cura di Stefania D’Alberto e Giulia Tomasi
La mia valigetta di viaggio
a cura di Virginia Gibelli e Beatrice Bassi